myTescoma-4-2017
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LA NOSTRA SFIDA La Panamericana
eduto in relax sotto il portico della fattoria colombiana in cui vivo da un paio d’anni, fuori Bogotà - in compagnia del cane randagio che probabilmente era incluso nel pac- chetto quando ho preso in affitto la proprietà - guardo indietro e ripenso a com’era la mia vita e a come sia cambiata in modi che mai avrei immaginato. Erano i primi anni 2000, io mi avviavo verso i trent’anni mentre la mia carriera era già ben più che avviata verso il successo: avevo un ottimo lavoro che mi fruttava uno stipendio a 6 cifre, mi ero comprato una bella casa a Seattle, fin troppo grande per me, guidavo una Porsche... vista da fuori, la mia sembrava la vita perfetta di un uomo realizzato. Eppure continuavo a non dormire bene la notte e avevo sempre la sensazione che mancasse qualcosa. Ci avevo dato dentro con il lavoro negli ulti- mi anni e iniziavo a pensare che forse un periodo sabbatico mi avrebbe fatto bene, che mi avreb- be restituito le energie per ricominciare con maggiore entusiasmo. Un’idea di cosa avrei fatto durante quel periodo si era delineata già da un po’ nella mia testa: tutto ebbe inizio anni prima, quando ai tempi del College praticavo il salto triplo ad alti livelli e mi allenavo per le Olimpiadi. A ben pensarci sembra la classica storia americana: una giovane promessa dello sport deve ri- nunciare al suo sogno per un grave infortunio al ginocchio, e durante la riabilitazione trova quel- la che sarà la sua strada futura. La mia, di strada, l’avrei percorsa in bicicletta. Non solo era un ottimo allenamento per riacquistare la funzionalità del ginocchio, a lungo andare era diventata una passione per me. Avevo iniziato a partecipare a corse di sensibilizzazione e raccolta fondi per varie cause e mi ero reso conto di essere piuttosto forte. Il ricavato di queste raccolte fondi però, avevo appreso col tempo, non andava tutto alle fondazioni cui era destinato, ma veniva inghiot- tito per la maggior parte dai costi di organizzazione degli eventi. Ecco perché io e il mio amico Brooks, con cui condividevo questo impegno, decidemmo di gestire noi il viaggio che stavamo per intraprendere. La madre di Brooks era stata portata via dal diabete qualche anno prima, per questo la causa alla quale destinare i nostri sforzi sembrò una scelta ovvia. L’idea era percorrere la Panamericana, suddividendola in tappe, impresa che avrebbe richiesto proprio quell’anno sabbatico che mi ero preso. Venduta la casa, venduta la macchina e affittato uno spazio in cui depositare le poche cose che avevo deciso di tenere, ero pronto per partire, e con me Brooks. Il viaggio Il progetto era ambizioso (o spaventoso?): dovevamo viaggiare leggeri, tutto quel che ci serviva l’avremmo portato con noi, caricato sulle nostre biciclette. Non volevamo che i fondi raccol- ti servissero a coprire le spese del viaggio, quindi avevamo risparmiato per autofinanziarci e avremmo campeggiato o alloggiato in sistemazioni super economiche, a volte anche per meno di 5$ a notte. L’obiettivo era di raccogliere 50.000$ per la ricerca. Ma il viaggio subì un impre- visto: nel sud del Messico, vicino al confine con il Guatemala, dei bandidos mascherati e armati di machete ci assalirono e ci derubarono. Dopo quell’episodio e sapendo che diversi altri ciclisti avevano avuto la stessa sorte in quelle zone, alcuni anche con conseguenze pesanti, Brooks deci- se di abbandonare l’impresa e di continuare la campagna di sensibilizzazione da casa.
La Panamericana è un sistema integrato di strade che si svi- luppa lungo la costa pacifica del continente americano e che si estende da Prudhoe Bay in Alaska, alla Terra del Fuoco in Argentina. La scelta del nostro percorso è ricaduta sulla Pana-
IL MIO STILE DI VITA
mericana per la sfida, fisica e psicolo- gica, che avrebbe comportato il fatto di pedalare per oltre 30.000 chilometri lungo una rete di strade che attraversa climi e sistemi tanto diversi, dalla tundra artica alle megalopoli, dalle foreste plu- viali a passi di montagna ad oltre 4.000 metri di altitudine, alle sconfinate diste- se di deserto. Un gioco da ragazzi in confronto alla battaglia che ogni gior- no combatte un malato di diabete, ma per noi comunque un’impre- sa che ci intimidiva a dir poco, e il modo mi- gliore che avessimo a disposizio- ne per sensibi- lizzare e aiutare la ricerca medica. LE TAPPE Nord America: 7.840 km 1. Prudhoe Bay, USA 26/07/2005 2. Whitehorse, Canada 21/08/2005 3. Prince George, Canada 9/09/2005 4. Seattle, USA 1/10/2005 5. San Francisco, USA 8/11/2005 6. San Diego, USA 1/12/2005 Messico e Centro America: 7.871 km 7. La Paz, Messico 12/01/2006 8. Mexico City, Messico 7/02/2006 9. Guatemala City, Guatemala 1/04/2006 10. Managua, Nicaragua 24/04/2006 11. San Jose, Costa Rica 16/05/2006 12. Panama City, Panama 12/06/2006 Sud America 14.484 km 13. Quito, Ecuador 16/06/2006 14. Trujillo, Perù 18/07/2006 15. La Paz, Bolivia 2/11/2006 16. Salta, Argentina 6/02/2007 17. Valparaiso, Cile 21/03/2007 18. El Calafete, Argentina 26/04/2007 19. Ushuaia, Argentina 8/05/2007
La partenza: Prudhoe Bay in Alaska
L’arrivo: Ushuaia, la città più a sud del mondo
Io, dopo un periodo di pausa, decisi di continuare, nonostante il trauma subito: avevo trovato il sostegno di tantissime persone, prima fra tutte la mia famiglia, e proseguendo nel tragitto incon- trai nuovi compagni di viaggio. Anche Brooks mi raggiunse per percorrere ancora parte della strada in SudAmerica. Attraversai terre difficili, il deserto di sale della Bolivia, valichi peruviani a quote di oltre 4.000 metri, fino ad arrivare, ventidue mesi dopo la partenza, nella città argentina di Ushuaia, nella Terra del Fuoco: la città più a sud del mondo! Dopo due anni trascorsi sulla strada sembrava impensabile ritornare alla vita d’ufficio con i classici orari dalle 9 alle 5.
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